Improvvisamente il grande Lawrence Ferlinghetti scese le scale

Fabio Andina – Neue Zürcher Zeitung – 06.06.2020

Lawrence Ferlinghetti. City Lights Bookstore

Era il primo gennaio 1998. Il giorno prima avevo consegnato le chiavi
dell’appartamento e trascorso la mia ultima notte a San Diego da un amico
messicano. Caricai i bagagli in una Buick presa a noleggio e mi diressi a nord.
Avevo davanti 800 Km di strada tutta dritta, alla fine della quale mi aspettava la
San Francisco State University. Lì, avrei concluso i miei studi in cinema,
indirizzandomi nella scrittura di sceneggiature.
Presi la Freeway 5 fino a Los Angeles, poi a Santa Monica mi gettai sulla
leggendaria Highway 1 che costeggia la costa dell’Oceano Pacifico. Mi lasciavo
così alle spalle 3 anni di San Diego. Ero arrivato agli inizi del 1995 per
imparare l’inglese, 4 mesi di corsi finiti i quali, invece di rientrare in Ticino, mi
iscrissi al San Diego Mesa College.
Mi fermai per trascorrere la notte in un anonimo motel per camionisti da 19.90
dollari tra Santa Barbara e San Luis Obispo. Trasportai i miei pochi averi dalla
Buick alla stanza. Ero sicuro che, se l’automobile fosse stata rubata,
l’assicurazione avrebbe risposto all’agenzia di noleggio. Ma a me nessuno
avrebbe ripagato i libri, i CD’s, il PC e i pochi vestiti.
Arrivato a San Francisco il giorno seguente, guidai a zonzo per le vie della città.
Volevo abbracciarla tutta quanta in una sola volta. Mission District, il Golden
Gate Bridge, Fisherman’s Wharf, Castro. Nel tardo pomeriggio affittai una
stanza di 4 metri quadrati in un ostello lercio di Chinatown. Rumori e
schiamazzi inquietanti giungevano dalla finestra che dava su una viuzza
secondaria e dal corridoio frequentato da personaggi loschi. Mi consolai
pensando a Charles Bukowski e a John Fante. Nel dormitorio del campus
universitario sarei potuto entrare solamente 3 settimane dopo, quindi tanto
valeva accettare quella condizione con spirito poetico.
Dopo aver trasportato i bagagli nella stanza e consegnato la Buick all’agenzia,
eccitato come un bambino la mattina di Natale, camminai lungo le vie attorno
all’ostello. Il mercato cinese brulicava di gente. Sentivo rumori, suoni e voci
nuovi alle mie orecchie. Respiravo odori, profumi e tanfi sconosciuti al mio
naso. E vedevo rane vive nei secchielli, galline vive pigiate in piccole gabbie
arrugginite, grossi pesci che si sbattevano dentro vasche rudimentali.
Entrai in un ristorantino di gestione familiare. Due bambini e un’anziana signora
tagliavano a pezzetti della verdura da parte al tavolino unto dove mi sedetti.
Parlai alla loro madre che mi servì la cena e al loro padre che cucinava nel
piccolo cucinino. Sarà stato perché quel che mangiai lo trovai squisito, o per il
clima familiare, fatto sta che in quel buco cenai per tre settimane di fila. Ma
questa è un’altra storia. La storia che voglio raccontarvi è quella del mio
incontro con Lawrence Ferlinghetti.
Non scelsi quell’ostello per caso. Era situato presso il margine nord della
chiassosa Chinatown, sul confine con la più discreta Little Italy. A due passi,
sulla Columbus Avenue, sorge il cuore pulsante della Beat Generation: il City
Lights Booksellers & Publisher, fondato nel 1953 da Lawrence Ferlinghetti e da
allora meta di artisti e intellettuali. Varcai la soglia ed entrai. Pavimenti in legno
e scale scricchiolanti, poster di eventi passati appesi ai muri, angolini di lettura,
seggiole e tavolini e scansie una diversa dall’altra, odore di vecchio, di vissuto.
Presi un libro a caso, mi sedetti e cominciai a leggere. Al college di San Diego
avevo iniziato a studiare e amare gli scritti venuti fuori dalle menti geniali e
contorte di Jack Kerouac, William Burroughs, Neal Cassady, Gregory Corso,
Diane Di Prima, Allen Ginsberg, Lawrence Ferlinghetti. Ora ero lì, a casa loro.
Così trascorrevano i miei primi giorni a San Francisco: mi svegliavo, scappavo
fuori dall’inquietante ostello e mi rifugiavo nel City Lights. A dieci passi dal
quale sorge il Vesuvio Café, colazione e pranzo con libro in mano.
Era il terzo lunedì di gennaio, il Martin Luther King Jr. Day. Da tre settimane
mi trovavo a San Francisco. Stavo seguendo una lettura di una giovane poetessa
al secondo piano del City Lights. La ragazza leggeva dal suo libretto, stava in
piedi di fronte a una decina di appassionati di letteratura seduti silenziosamente
su seggiole di legno. Io sedevo su un tavolo addossato al muro, tra scatoloni
vuoti di monitor per computer. Nel bel mezzo della lettura, sentii le scale
scricchiolare, voltai lo sguardo e vidi Lawrence Ferlinghetti puntare verso di
me. All’improvviso, la Beat in persona mi si sedette di fianco, sullo stesso
tavolo, e le parole della poetessa non ebbero più nessuna importanza per me.
Adesso i miei sensi erano tutti per quell’uomo, allora 79enne. Si ficcò una mano
nella tasca della giacca e ne estrasse una busta indirizzata a lui che non aveva
ancora aperto. Da un’altra tasca pescò una matita e iniziò a scrivere qualcosa sul
retro della busta. Due o tre versi, ricordo che scrisse qualcosa circa un uccello
che volava alto nel cielo luminoso sopra al mare calmo. Rimise la busta e la
matita nella tasca, si alzò e s’incamminò giù per le scale. Lo rincorsi. Lorenzo,
chiamai e lui si voltò. Lo raggiunsi. Mi presentai, sono uno studente svizzero,
sì, parlo italiano perché in Ticino si parla italiano, e poi sono anch’io come te di
origini italiane, mia madre è italiana… e fu così che conobbi Lawrence
Ferlinghetti.
Il giorno dopo stavamo bevendo qualcosa che non ricordo, probabilmente un
caffè all’americana, al Vesuvio Café. Nel Vesuvio, come nel City Lights, si
respirava la Beat, l’arte, l’anticonformismo. Dagli anni cinquanta, su quelle
seggiole di legno si erano seduti tanti artisti e intellettuali da riempire uno
stadio. E adesso c’eravamo io e Ferlinghetti. Gli chiesi di Jack Kerouac, del suo
scrivere a flusso, quel metodo di scrittura che m’intrigava già allora e che
adottai durante quegli anni. Basta scrivere quel che detta la mente senza mai
fermarsi per rileggere, mi spiegò. Ci vuole un allenamento della mente, non è
facile aprire il rubinetto dei pensieri e lasciare che le dita riportino sulla tastiera
il flusso di lettere senza inibizioni. Ci vuole anche allenamento fisico perché a
picchiare sulla tastiera per ore può stancare, si vorrebbe fare pause, sgranchirsi
le spalle e le gambe, bere qualcosa andare al gabinetto. Invece si deve stare lì a
scrivere e basta. Kerouac usava scrivere alla macchina da scrivere su un rotolo
di carta, era vero, non era una leggenda, mi raccontò. Così si doveva fermare
solamente quando il rotolo era finito, e non alla fine di ogni singolo foglio.
Un giorno gli domandai se gli andava di leggere i miei scritti, scrivevo in
italiano, poesie, racconti, una qualche bozza di romanzo. Disse che avrebbe
letto volentieri le mie poesie. I racconti e i romanzi no, troppo lunghi. E poi lui
era un poeta, mi disse. E mi disse anche di portargliele nel suo ufficio la mattina
seguente. Con il Floppy Disk in tasca, entrai in un bugigattolo di Chinatown.
Oltre a vendere radici di ginseng e pinne di squalo essiccate, davano anche la
possibilità di fare fotocopie e stampare da PC. Preparai un fascicolo con tutte le
mie poesie e glie le portai nel suo ufficio, una porticina di fianco a dove la
poetessa fece la lettura. Un locale polveroso e disordinatissimo, mobilio di
seconda mano, libri accatastati ovunque, sul pavimento, sulla scrivania, giusto
lo spazio per sedersi su una sedia di legno.
Sfogliò il fascicolo, un centinaio di fogli che racchiudevano più di 300 poesie.
Lesse qua e là a caso. Io rimanevo immobile. Respirare la sua stessa aria mi
gonfiava i polmoni. Avevo davanti un mostro sacro della letteratura mondiale. E
come voltava le pagine la mia testa iniziò a girare. Immaginai le persone
passate proprio da quell’ufficio. Vidi Jack Kerouak, Allen Ginsberg, William
Bourroughs e compagnia. Ma non vidi solamente gli scrittori Beat. Vidi anche
altri artisti esponenti di quel movimento. Vidi i musicisti Bob Dylan, Jim
Morrison, John Lennon, Miles Davis, Dizzy Gillespie. E anche i pittori Jackson
Pollok, Mark Rothko e Barnett Newman. Tutti artisti che conoscevo e
ammiravo.
Quando Ferlinghetti disse che voleva tenere il fascicolo per leggerlo con calma
ebbi un fremito, un sussulto. Quel momento l’ho impresso nella memoria,
marchiato a fuoco. Io in piedi, lui seduto, e il mio fascicolo, che conservo
tutt’ora, nelle sue mani. Alcune di quelle poesie sono state pubblicate nella
raccolta intitolata Ballate dal buio (Edizioni Ulivo, 2005).
Assieme a Ferlinghetti seguii una lettura di Diane Di Prima in un piccolo
bookstore nel quartiere Haight-Ashbury, il quartiere che ha dato alla luce il
movimento Hippy all’inizio degli anni 60. Eravamo sì e no in venti persone.
Allora 64enne, seduta in una poltrona sfondata di velluto, Di Prima leggeva
passaggi da una sua recente pubblicazione. La ricordo nei suoi lunghi capelli
sciolti sale e pepe, un altrettanto lungo vestito blu a fiori e le ciabatte ai piedi.
Ferlinghetti me la presentò, mi feci autografare il suo libro per regalare a mia
cugina, poi ordinammo un drink. Io, non ancora trentenne, studente di cinema,
al tavolino con Diane Di Prima, oggi 86 anni, e Ferlinghetti 101. Oggi, sono
forse gli ultimi esponenti di quel movimento di scrittori che fece grande la
letteratura americana nel mondo.
Una sera, alla chiusura, da una piccola dispensa girevole del City Lights presi
una cartolina e gli chiesi di autografarmela. Ferlinghetti guardò la fotografia.
Ritraeva Allen Ginsberg, Peter Orlovsky, Jack Kerouac e William Burroughs in
una spiaggia di Tangeri nel 1957. La guardò con occhi melanconici. Kerouac se
n’era andato nel ’69. Ginsberg e Burroughs erano morti da tre anni. Il solo Peter
Orlovsky era, allora, ancora in vita. Pescò dalla tasca dei pantaloni una matita e
scrisse la dedica.
To Fabio Andina, Peace and Love, Lawrence Ferlinghetti.

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: